L'impiego della contenzione meccanica nelle strutture per anziani: qualcosa di cui parlare
di Giada Cola
Nell’Aprile 2015 il Comitato Nazionale per la Bioetica, organo consultivo della Presidenza del Consiglio dei ministri istituito il 28 marzo 1990, ha espresso un Parere circa “La contenzione: problemi bioetici”. Il CNB ribadisce come necessario il superamento dell’uso della contenzione meccanica: pratica che consiste nel legare la persona, contro la sua volontà, mediante l’impiego di fasce, cinture, lacci, cinghie, polsini o altri mezzi. L’impiego della contenzione meccanica è soltanto uno dei residui manicomiali ancor oggi imperanti nei servizi psichiatrici e in quelli socioassistenziali per persone con disabilità intellettiva e/o fisica e per anziani.
Raramente applicata in situazioni estreme e più frequentemente come misura preventiva (di una caduta, di un comportamento aggressivo), lede profondamente la dignità della persona costretta in fasce, compromettendo irreparabilmente la relazione con gli operatori e inficiando negativamente sul percorso di cura. Già in precedenza il Comitato aveva denunciato il frequente impiego della contenzione, raccomandando la necessità di avviare un monitoraggio del suo utilizzo in tutte le strutture e un programma per il suo superamento. Questi elementi consentirebbero non soltanto l’introduzione di buone pratiche, ma un vero e proprio cambio di paradigma: dal trattamento come controllo a terapia come cura e relazione; dallo specialista come commesso del potere, per dirla con Gramsci, a professionista in grado di stare nella contraddizione irriducibile che è propria della sua professione senza spostarla, occultarla, negarla.
Seppur in modo incostante, il dibattito sulla contenzione dei pazienti psichiatrici ha potuto trovare nel tempo alcuni spazi di apertura. Stessa sorte non sembra esser toccata invece agli anziani.
Se documenti e Pareri esprimono una posizione chiara sull’uso della contenzione meccanica (vedasi: Bioetica e diritti degli anziani, 2006 “; ”Le demenze e la malattia di Alzheimer: considerazioni etiche, 2014”), Residenze Socio Assistenziali (RSA) e Centri Diurni Integrati sembrano essere invece cronicari senza tempo cui destinare vecchi non pienamente autosufficienti (ma sempre più frequentemente anche uomini e donne di mezza età con compromissioni psicofisiche importanti).
Costretti da cinture pelviche, addominali o tavolini servitori in posizioni innaturali che ne limitano il movimento, quando non massicciamente sedati, gli “ospiti” e le “ospiti” di queste strutture (così vengono chiamati/e), sono uomini e donne improduttive, non più in grado di contribuire attivamente all’economia del Paese e perciò divenuti pesi ingombranti, per i quali la presa in carico finisce inevitabilmente per coincidere con l’alienazione.
Portare uno sguardo di cura in questi contesti, significa mettere in discussione l’idea di sicurezza e pericolosità. Nelle parole di operatori che lavorano in istituzioni totali senza averne coscienza, pericoloso è un uomo di ottant’anni dall’equilibrio instabile che potrebbe cadere e sicuro è azzerarne i movimenti, rendendolo paraplegico (fino all’ora della fisioterapia, quando il mandato cambia e allora ecco che deve camminare!). È assolutamente necessario guardarsi bene dal descrivere chi lavora in questo modo in termini di buono o cattivo: l’istituzione totale manicomializza anche il personale, spesso lasciato solo a gestire situazioni complesse e rischiose senza gli adeguati strumenti e la corretta formazione. Responsabili di introdurre buone pratiche in contesti non soltanto coatti, ma coercitivi, siamo noi: giovani professionisti e professioniste animati dal desiderio di operare per tutelare la dignità di coloro che incontriamo, siano essi fruitori di un servizio o erogatori. Percepire il proprio corpo che viene legato e in tal modo espropriato della sua capacità di autodeterminarsi, è profondamente traumatico e lesivo della dignità umana.
Lo è anche applicare una contenzione, anche quando si è convinti che non esistano alternative possibili e il gesto di legare è ormai divenuto un atto privo di pensiero alcuno.
Portare uno sguardo di cura significa allora fare domande nuove, mettere in discussione le premesse imperanti, sollecitare quel processo che l’antropologo indiano Arjun Appadurai chiama deep democracy (democrazia dal basso): la costruzione di una cittadinanza da parte di chi è portatore di una fragilità (in termini di salute, condizione socioeconomica, ma anche lavorativa).
Affinché questo accada, è necessario favorire processi che consentano a questa grande fetta della popolazione di acquisire risorse, ma anche sollecitare le istituzioni affinché sostengano attivamente il cambiamento. Forse soltanto così sarà possibile trasformare i residui manicomiali che puntellano un po’ ovunque anche il nostro Paese in esempi vivi e quindi conoscibili, criticabili, apprezzabili e soprattutto possibili di buone pratiche.